Il web e i social network hanno certamente ampliato a dismisura le possibilità di accesso alla conoscenza e alle informazioni, ma, allo stesso tempo, hanno anche permesso il propagarsi di un fenomeno altamente dannoso per la qualità dell’informazione stessa, quindi per il corretto formarsi dell’opinione pubblica e, in parte, anche pericoloso per la democrazia. Si tratta delle cosiddette “fake news”, ossia le notizie false, le “bufale”, generalmente create ad arte, allo scopo di influenzare, in qualche modo, l’opinione pubblica stessa, ma spesso anche, semplicemente, per ottenere guadagni rendendo “virali”, ossia assai popolari, con tante condivisioni, commenti e “likes”, determinati contenuti sul web. Secondo il rapporto “Infosfera”, realizzato dal gruppo di ricerca sui mezzi di comunicazione di massa dell’università Suor Orsola Benincasa, guidato dai professori Umberto Costantini ed Eugenio Iorio, e presentato alcuni giorni fa, la stragrande maggioranza degli italiani, cioè addirittura l’82 per cento, non sarebbe in grado di riconoscere una “bufala” diffusa su Internet, anche se sarebbe dell’87 per cento la percentuale di quanti ritengono che i social network non siano una fonte di notizie credibili, ma comunque, per il 77,3 per cento, le “fake news” non indeboliscono la democrazia.
La maggior parte delle notizie false sembrerebbe riguardare proprio uno degli argomenti a cui l’opinione pubblica, soprattutto da qualche anno a questa parte, è più sensibile e che viene particolarmente cavalcato da alcune forze politiche, ossia quello dell’immigrazione. Secondo la “bufala” più recente, ad esempio, Josefa, la donna camerunense salvata dalla nave della Ong Open Arms dopo essere stata quarantotto ore in mare e aver visto morire accanto a sé una mamma con il bambino, avrebbe avuto sulle unghie uno smalto rosso acceso al momento di essere recuperata dai volontari della Ong, e, quindi, il salvataggio sarebbe stato una messinscena, quando questi , in realtà, gliel’hanno messo solo successivamente, nei quattro giorni di navigazione per la Spagna, per distrarla. A diffondere la falsa notizia, Francesca Totolo, che, in un’intervista alla “Stampa”, si è definita una “ricercatrice indipendente” ma ha ammesso di collaborare principalmente con “Il Primato Nazionale”, testata legata al movimento di estrema destra Casa Pound. Molto spesso, queste “fake news” si abbinano anche ad una buona dose di complottismo, per cui chi non crede nei mass media tradizionali finisce, poi, per credere a queste “contro-verità” spesso assurde, che sono, però, generalmente ispirate anche da precise ideologie politiche.
Un caso forse emblematico in tal senso è quello di un’immagine, diffusasi a inizio luglio, che voleva dimostrare come la foto dei bambini morti il 29 giugno per l’affondamento di un barcone al largo della Libia fosse in realtà un fotomontaggio realizzato con dei bambolotti: “Ecco svelata la falsa messa in scena delle Ong di Soros: una vergogna”, diceva infatti il testo che l’accompagnava, quando, in realtà, ad essere falsa era proprio questa immagine. Un’altra recente notizia “fake”, divenuta virale proprio facendo presa sulle paure di un’ipotetica “invasione” di migranti, pur non prendendo spunto da fatti tragici, è quella diffusa sempre tra fine giugno e inizio luglio da un utente di Twitter che aveva postato una foto con migliaia di persone in mare e la scritta “Porto libico… Non te le faranno mai vedere queste immagini... Sono tutti pronti a salpare per l’Italia”, quando invece era la foto dello storico concerto tenuto dai Pink Floyd nella Laguna di Venezia, davanti a 200 mila persone, nel luglio 1989. Ancora, un mesetto fa ha raggiunto un milione di visualizzazioni e decine di migliaia di condivisioni su Facebook, con tantissimi commenti indignati, la foto, pubblicata sulla pagina “PiùEuropaShitposting”, di un ragazzo dalle sembianze orientali e la scritta “Questo è Tarim Bu Aziz. Per una maggiore integrazione chiede di introdurre i numeri arabi nelle scuole italiane. Tu cosa gli rispondi?”, per la quale molti sembrano aver per un attimo dimenticato (o, forse, non ne erano proprio a conoscenza) che i numeri arabi già li adoperiamo, essendo stati introdotti in Europa nel XIII secolo da un matematico pisano.
Il credere alle “bufale” può infatti dipendere, in parte, anche dal cosiddetto “analfabetismo funzionale”, che riguarda quanti, pur capaci di leggere e scrivere, hanno difficoltà a comprendere testi semplici e sono privi di varie competenze utili nella vita quotidiana, un fenomeno che interessa il 28 per cento degli italiani e per il quale il nostro paese è al secondo posto in Europa e al quarto fra i 33 paesi analizzati dall’Ocse. Moltissime sono poi le “fake news” che riguardano personaggi pubblici o leader politici, specie se si tratta di figure che, per le idee o le opinioni da loro espresse, sono ammirati ma, più spesso, duramente criticati: solo alcuni giorni fa, il “cacciatore di bufale” David Puente ha “smascherato” il profilo Facebook di Lara Pedroni (nome assai probabilmente falso), da cui venivano create ad arte “fake news” sullo scrittore Roberto Saviano, sull’ex presidente della Camera Laura Boldrini e sull’ex premier Matteo Renzi, con dichiarazioni da loro mai rilasciate, e che, però, guadagnavano molte migliaia di condivisioni e commenti spesso indignati.
Per arginare tale fenomeno, che, come abbiamo detto, può condizionare l’opinione pubblica e, quindi, nuocere alla democrazia, si è pensato anche di intervenire con lo strumento legislativo, prima con la “Dichiarazione dei diritti in internet“, pubblicata a fine 2015, dopo un lavoro di un anno di una Commissione di studio, e che ha visto la Camera votare due mozioni che la recepivano e impegnavano il governo ad applicarla, e poi con un disegno di legge avente come prima firmataria la senatrice Adele Gambaro (ex M5S), depositato al Senato a fine febbraio 2017 e poi assegnato alle Commissioni Affari costituzionali e giustizia, il cui esame, però, non è mai iniziato. Un fenomeno così complesso, del resto, non si presta ad essere contrastato per via legislativa, perché vi è anche il rischio che, in tal modo, si possa arrivare a forme di censura verso tutti quei contenuti considerati “non ufficiali” o tutte quelle notizie ritenute in qualche modo “sgradite”, e si possa, quindi, voler, in parte, limitare la libertà di espressione, che vale anche nel web, e, a volte, queste forme di censura potrebbero essere invocate da alcuni schieramenti politici verso altri, rischiando, poi, di perdere di vista quella che è la verità oggettiva.
E’ tuttavia necessario che si cerchi di porre un freno alla diffusione delle “bufale“, che, peraltro, costituiscono un problema anche per quanti cercano di fare informazione in maniera seria e rigorosa, ma dovrà forse essere principalmente il comune cittadino ad avere la capacità di discernere una notizia vera da una che può non esserlo, cercando eventuali conferme a quanto si trova sul web e verificando sempre che le notizie siano riportate da più fonti che risultino attendibili, prima di rilanciarle magari tramite i social network o commentarle in maniera indignata. Si tratta di una delle principali sfide connesse ad Internet, uno strumento per altri versi incredibile e che ha aumentato anche le possibilità di accedere alle informazioni, e che riguarda un po’ tutti, sia gli esponenti politici, sia i giornalisti, sia i semplici cibernauti, ma che alla fine non è cosi difficile da vincere, basta applicare una giusta dose di senso critico a quanto troviamo in rete, non smettendo mai, se possibile, di cercare di approfondire la notizia, anche se, spesso, tale mezzo privilegia la velocità e, quindi, sembra spingerci verso contenuti da consumare in pochi secondi, magari con un titolo ad effetto.