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Gaza, si fermi la spirale dell’odio

Lunedì scorso una delegazione statunitense era a Gerusalemme per l'inaugurazione della nuova ambasciata in Israele, ma a Gaza quindicimila palestinesi partecipavano ad una marcia contro tale scelta e per l'anniversario, per loro nefasto, della fondazione di Israele: l'esercito israeliano ha aperto il fuoco, uccidendo 61 persone e ferendone circa 2800.

Gaza, si fermi la spirale dell’odio 21 Maggio 2018Lascia un commento

Sono nato nel 1982 a Roma, e sono sempre vissuto, e vivo tuttora, nel quartiere Balduina, a cui sono molto affezionato e che considero uno dei migliori della città, ma di cui, al tempo stesso, conosco pure i difetti e gli aspetti che andrebbero migliorati.

E’ drammatico quanto avvenuto lunedì 14 nella striscia di Gaza. Ricorreva infatti il settantesimo anniversario della proclamazione dello Stato d’Israele, e una delegazione statunitense, che comprendeva anche la figlia del presidente Ivanka Trump con il marito Jared Kushner, era a Gerusalemme per l’inaugurazione della nuova ambasciata americana in Israele, con la quale si riconosceva, di fatto, tale città come capitale dello stato ebraico. Per i palestinesi, invece, era l’anniversario della “nakba”, ossia “la catastrofe” della fondazione di tale stato, e pertanto, circa quindicimila persone hanno partecipato alla Grande Marcia del Ritorno, radunandosi al confine tra Gaza e Israele per protestare contro l’apertura dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme e per celebrare questo anniversario. L’esercito israeliano, però, ha aperto il fuoco contro chiunque si avvicinasse al confine, anche se questi erano per lo più disarmati, o armati semplicemente di pietre e fionde, e, a fine giornata, si contavano 61 morti, di cui otto con meno di 16 anni, e circa 2800 feriti, tra cui duecento bambini.

Le violenze nella striscia di Gaza sono state condannate a livello internazionale, e il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha votato a maggioranza una risoluzione con cui si chiede l’istituzione di una commissione internazionale indipendente che indaghi su tali avvenimenti. Di tutt’altro avviso l’amministrazione americana: per un portavoce della Casa Bianca, infatti, “la responsabilità di quanto sta accadendo è chiaramente di Hamas che sta intenzionalmente provocando la risposta di Israele”. Il conflitto israelo-palestinese dura ormai da settant’anni, da quando nel 1948, all’indomani della fondazione dello stato di Israele, gli stati della Lega Araba gli dichiararono guerra, anche se i primi attriti risalgono alla fine del diciannovesimo secolo, con la nascita del sionismo e del nazionalismo palestinese. Negli anni Novanta si era giunti ad un passo da una pace duratura, con gli accordi di Oslo del 20 agosto 1993, ma, al vertice di Camp David del luglio 2000, il nuovo primo ministro israeliano Ehud Barak non riusci a convincere con le sue proposte il leader palestinese Yasser Arafat, così le trattative naufragarono.

Con la visita, il 28 settembre 2000, del nuovo premier israeliano Ariel Sharon al Monte del Tempio, sacro sia per gli ebrei che per i musulmani, scoppiò la seconda “Intifada” palestinese, più violenta della prima. Nel settembre 2005 Sharon portò a termine un piano di ritiro unilaterale dei soldati e dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza. Le elezioni per il Consiglio legislativo dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) del 25 gennaio 2006 furono però vinte dalla fazione estremista di Hamas, che arrivò a prendere il controllo della Striscia di Gaza; Israele impose allora un blocco navale, terrestre e marittimo della stessa. Nel dicembre 2008 Israele, in seguito all’intensificarsi del lancio di razzi da Hamas, intraprese un’offensiva aerea e terrestre nella Striscia di Gaza, che fece circa 1100 vittime tra i palestinesi e 13 tra gli israeliani. L’8 luglio 2014, invece, dopo il rapimento e l’uccisione di tre ragazzi israeliani, per il quale Israele accusò subito Hamas, questo avviò, sempre nella Striscia di Gaza, l’operazione “Protective Edge“, per bloccare i lanci di razzi da parte di tale organizzazione e distruggere i tunnel adoperati dai combattenti palestinesi, e tale operazione si concluse il 26 agosto, dopo aver causato 2136 morti fra i palestinesi, in gran parte civili, e 69 fra gli israeliani.

Si tratta dunque di un conflitto le cui responsabilità, seppur in misura variabile, sono attribuibili ad entrambe le parti, e che, negli ultimi anni, ha visto contrapporsi i governi di Israele, democratici ma ben decisi ad utilizzare la forza per proteggersi, anche a costo di mietere molte vittime civili, e un’organizzazione considerata terrorista, quella di Hamas, che però è largamente rappresentativa tra i palestinesi, probabilmente più dell’ala moderata di Al-Fatah. La popolazione civile, soprattutto palestinese, è la principale vittima di questa guerra pluridecennale, in particolare nella striscia di Gaza, di fatto ancora occupata da Israele, che qui vi mantiene un blocco, assieme all’Egitto, e che controlla lo spazio aereo e marittimo e sei dei sette valichi di frontiera, per cui la zona è diventata una sorta di prigione a cielo aperto, con un tasso di povertà del 42% e un tasso di disoccupazione del 43%, il più alto del mondo. Anche la popolazione israeliana ha subito, nel corso degli anni, diverse decine di vittime, soprattutto per i razzi lanciati da Hamas nei pressi di Gaza, tuttavia, per l’enorme sproporzione tra l’esercito israeliano e le forze palestinesi, è fra la popolazione civile palestinese che si conta un numero di morti e feriti molte volte superiore.

Israele accusa però la stessa Hamas di non fare assolutamente nulla per proteggere i “suoi” civili, anche perché il fatto di avere molte vittime civili palestinesi favorirebbe, a livello mediatico, la sua causa. In questa delicata partita si muovono, sullo sfondo, altri giocatori, in primo luogo gli Stati Uniti, che, seppur tradizionalmente alleati di Israele, in genere cercavano anche che i rapporti tra questo e i palestinesi fossero migliori, fino all’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che, con la sua decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele, ha preso una posizione nettamente a favore di quest’ultimo e a sfavore dei palestinesi, visto che la città è anche rivendicata dall’Anp come capitale del futuro Stato di Palestina. Sullo sfondo, ora, vi è anche l’Iran, visto che più di un mese fa, la Guida suprema di tale Paese, l’Ayatollah Alì Khamenei, avrebbe detto che Hamas va sostenuta ad ogni costo, e Israele teme che questo si stia dotando nuovamente dell’arma atomica, pertanto ha condotto, negli ultimi anni, diversi raid contro basi e depositi di armi iraniani in territorio siriano. Appare chiaro, quindi, come si tratti di una situazione estremamente complicata sul piano geopolitico, e drammatica sul piano umano, viste le tante vittime che vi sono state e le difficili condizioni di vita soprattutto dei palestinesi nella striscia di Gaza.

Per cercare di risolverla e per andare in direzione della pace, sarebbe necessario che ambedue le parti fossero disposte a qualche rinuncia, e, soprattutto, ricorressero meno all’uso della forza, sia l’attuale governo israeliano di Benjamin Netanyahu, sia Hamas, l’organizzazione di fatto più rappresentativa tra i palestinesi, ma essi sembrano andare quasi nella direzione opposta, perché il primo, rivendicando il diritto all’autodifesa, finisce spesso con il mietere vittime civili, così come Hamas, che continua con i suoi attacchi spesso kamikaze. Anche il presidente americano Donald Trump, con la sua insensata decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, si è sbilanciato di molto a favore di quest’ultimo e ha complicato ulteriormente il processo di pace. Soprattutto, questi due popoli dovrebbero imparare a non odiarsi così tanto come finora hanno fatto, e imparare, magari, che si può convivere pacificamente sulla stessa terra, senza doversela contendere pezzettino per pezzettino, ma ciò, purtroppo, al momento appare quasi utopico.

Sono nato nel 1982 a Roma, e sono sempre vissuto, e vivo tuttora, nel quartiere Balduina, a cui sono molto affezionato e che considero uno dei migliori della città, ma di cui, al tempo stesso, conosco pure i difetti e gli aspetti che andrebbero migliorati.

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