Sono sempre di più gli italiani che tentano di costruirsi un futuro lavorativo all’estero: circa cinque milioni, ossia l’8,2%, secondo il rapporto “Italiani nel mondo 2017” della Fondazione Migrantes della Cei, presentato martedì a Roma, il 3,3% in più rispetto all’anno precedente. E la fascia d’età in cui questo fenomeno è prevalente è proprio quella dei giovani fra i 18 e i 34 anni, che costituiscono oltre il 39% di chi ha lasciato l’Italia nell’ultimo anno, e sono il 23,3% in più rispetto all’anno precedente. In aumento (del 12,5% rispetto all’anno precedente) anche gli italiani fra i 35 e i 49 anni che tentano la fortuna all’estero, ma vi è un 9,7% costituito anche da persone fra i 50 e i 64 anni, i cosiddetti “disoccupati senza speranza” rimasti senza lavoro in un’età in cui è ancora più difficile trovarlo, e un 5,2% composto da ultra-sessantacinquenni che, invece, sono per lo più i genitori dei giovani che tentano una nuova vita all’estero. Dietro a queste cifre, si cela un problema sempre più grande, direi anzi gigantesco, se non drammatico: l’Italia è ormai un paese che ha ben poco da offrire, in termini lavorativi, ai suoi giovani, e dove pure chi rimane senza lavoro in età più avanzata ha enormi difficoltà, poi, a trovarne un altro.
Mercoledì, invece, è uscito il rapporto “Preventing Ageing Unequally” dell’Ocse, nel quale si rileva che “già oggi l’Italia è uno dei più vecchi Paesi” fra gli appartenenti alla stessa organizzazione, e, se non ci sarà un’inversione di tendenza, nel 2050 vi saranno 74 ultra-sessantacinquenni ogni 100 persone nella fascia tra i 20 e i 64 anni, contro i 38 di adesso, e il nostro sarà quindi il terzo paese più vecchio del mondo, dietro a Giappone e Spagna. Secondo l’Ocse, insomma, l’Italia “non è un Paese per giovani”, anche perché, si sottolinea sempre nel rapporto, negli ultimi trent’anni il divario fra le varie generazioni è cresciuto sempre di più, al punto che, fra il 2000 e il 2016, il tasso di occupazione è cresciuto del 23% fra le persone tra i 55 e i 64 anni, ma solamente dell’1% per le persone fra i 24 e i 55 anni, ed è crollato dell’11% per i giovani fra i 18 e i 24 anni. Il tasso di povertà è inoltre salito fra i giovani, ma è calato fra gli anziani. Solo una settimana fa, inoltre, gli studenti delle superiori e dell’università erano scesi in piazza per protestare contro la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, che spesso, affermavano probabilmente non a torto, può celare forme di “sfruttamento del lavoro gratuito“.
Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Istat e riferiti ad agosto 2017, invece, la fascia d’età che se la passerebbe peggio sarebbe quella tra i 35 e i 49 anni, poiché in tale fascia vi sarebbero circa 996 mila disoccupati, gli occupati sarebbero 147mila in meno rispetto all’anno precedente e gli inattivi, ossia quanti rinunciano anche a cercare lavoro, lo 0,2% in più: per questa fascia d’età, infatti, non vi sono i (seppur scarsi) incentivi previsti per i più giovani o, in parte, per chi ha più di 50 anni. Appare quindi indispensabile che le classi dirigenti si preoccupino di creare posti di lavoro, per i giovani e non solo, mettendo in campo però politiche radicalmente diverse da quelle attuate finora, che di fatto, con il famoso “Jobs Act”, ad esempio, hanno mirato per lo più a rendere il lavoro “flessibile”, riducendo però, in pratica, i diritti dei lavoratori, mentre l’occupazione non è aumentata, a parte, appunto, per i contratti a tempo determinato, e in buona parte grazie agli incentivi del governo per chi assume, che, infatti, sembra vengano riconfermati anche nella legge di bilancio 2017. Una seria politica industriale e del lavoro, assieme a sussidi per chi rimane senza di esso e a misure per ridurre le disuguaglianze, sono oramai pressoché indispensabili per non condannare questo paese al declino e per non lasciare senza futuro le giovani generazioni e, anche, senza speranza quelle intermedie.