È sempre più drammatica e tesa la situazione in Medio Oriente, dove, dopo che, il 7 ottobre 2023, Hamas ha condotto una serie di attacchi terroristici in Israele che sono costati la vita a oltre 1200 persone e ha rapito circa 250 ostaggi, Israele ha dichiarato formalmente guerra con lo scopo ufficiale di cancellare definitivamente Hamas. Israele ha quindi lanciato prima pesanti bombardamenti sulla striscia di Gaza, dove si troverebbero le basi di Hamas, ma che è anche un’area densamente abitata, da oltre due milioni di persone, e, dal 26 ottobre, anche l’esercito israeliano è entrato in tale territorio, con violenti combattimenti. Il coinvolgimento dei civili palestinesi in tali scontri, oltre a causare un alto numero di vittime, che sarebbero ben quarantamila, ha anche determinato una crisi umanitaria nella striscia di Gaza, dove, a seguito dell’assedio, vi è stata una riduzione del 90 per cento della disponibilità di elettricità, con conseguenze anche sulle forniture elettriche ospedaliere, e scarsità di cibo, acqua, carburante, farmaci e forniture mediche. Nelle ultime settimane si sono, inoltre, aperti altri fronti, prima con il Libano, poi con l’Iran.
Dal Libano, infatti, venivano talvolta sparati razzi contro Israele, che generalmente erano intercettati dai sofisticati sistemi antimissili israeliani, ma poi, il 17 e il 18 settembre, in Libano e in Siria, sono esplosi prima tremila cercapersone, causando 12 morti in Libano, 7 in Siria e circa quattromila feriti, poi centinaia di walkie-talkie, appartenenti in entrambi i casi a miliziani di Hezbollah, uccidendo almeno 20 persone e ferendone circa 450, in due operazioni a cui lavorava il Mossad, il servizio segreto israeliano. Dal 23 settembre, Israele ha poi lanciato, con l’operazione Northern Arrows, pesanti raid sul Libano, che in pochi giorni hanno già causato 700 morti, per colpire il partito-milizia di Hezbollah, e in uno di questi raid è stato ucciso anche Hassan Nasrallah, il segretario generale di questa organizzazione, politicamente legata all’Iran. Quest’ultimo Paese, la sera del 1 ottobre, ha lanciato, per risposta, piu di 180 missili contro Israele, che sarebbero stati quasi tutti intercettati dai sistemi antimissili israeliani Iron Dome e Arrow 3, e avrebbero causato solo un morto, tuttavia si teme, adesso, la controrisposta israeliana.
Lo scorso 10 ottobre, le truppe israeliane hanno aperto il fuoco contro tre postazioni Unifil, la missione Onu schierata nel Sud del Libano, tra cui due basi italiane, ferendo due caschi blu indonesiani, e oggi hanno sparato contro un punto di osservazione della forza Unifil, ferendo due persone di nazionalità cingalese, di cui una sarebbe in gravi condizioni. Ieri, inoltre, in un bombardamento israeliano su una scuola che ospitava sfollati nella striscia di Gaza, sono stati uccisi almeno 28 palestinesi. Già lo scorso 29 dicembre 2023, il Sudafrica aveva presentato, dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia (Cig), una denuncia contro Israele, accusandolo di “atti di genocidio contro il popolo palestinese, commessi o tollerati dal Governo e dall’esercito”. Il 26 gennaio 2024 la Corte ha stabilito che Israele deve adottare “tutte le misure in suo potere per evitare il rischio di genocidio” e “assicurarsi che le sue forze militari non stiano compiendo nessuno di questi atti”, oltre a dover “garantire la fornitura degli aiuti umanitari e dei servizi di base” e “rispondere alle necessità primarie e sanitarie dei palestinesi nella striscia di Gaza”.
Israele, però, ha rigettato come false e diffamatorie le accuse di genocidio, sostenendo di avere il diritto di difendersi e di attaccare Hamas, e che, semmai, sarebbe proprio quest’organizzazione ad avere intenzioni di genocidio. Il 20 maggio, il procuratore capo della Corte penale internazionale Khan ha chiesto alla Camera preliminare del tribunale di emettere mandati di arresto contro il premier israeliano Netanyahu e il ministro della Difesa Gallant per “crimini di guerra e contro l’umanità”. Anche gli Stati Uniti, da sempre alleati di Israele, ultimamente erano, forse, un po’ più tiepidi sulla linea del premier israeliano Netanyahu, anche se sembra necessario che mostrino con maggior fermezza a quest’ultimo le ragioni di una tregua, facendogli presente che non può continuare con i bombardamenti, e che smettano di rifornire Israele di armi. Ad agosto si sono tenuti colloqui per il cessate il fuoco a Doha, in Qatar, e poi al Cairo, in Egitto, ma sono finiti senza un accordo.
Non è certamente la prima volta che si verificano aspre tensioni fra lo stato di Israele, la popolazione palestinese e i Paesi arabi confinanti, anche se forse non avevano mai raggiunto una tale intensità, intesa come numero di vittime, né una tale durata, visto che è già un anno che questo conflitto va avanti, e, purtroppo, ancora non si intravede una fine. Già dopo che l’assemblea Generale dell’Onu approvò, il 29 novembre 1947, una risoluzione che raccomandava l’adozione del Piano di Partizione della Palestina, scoppiò infatti la guerra civile del 1947-1948 nella Palestina mandataria, mentre, dopo che, il 15 maggio 1948, giunse al termine il mandato britannico della Palestina, e gli ebrei sionisti proclamarono unilateralmente la nascita dello Stato di Israele, gli Stati Arabi confinanti invasero il territorio della Palestina e attaccarono le forze isrealiane e vari insediamenti ebraici, scatenando la guerra arabo-israeliana del 1948. Questa si concluse con la vittoria dello stato di Israele e con il suo definitivo insediamento, mentre più di 700mila civili palestinesi si trasferirono nei campi profughi del Vicino Oriente, ed Israele, poi, ne rifiutò il ritorno.
Nel 1967 vi fu poi la guerra dei sei giorni, tra Israele ed Egitto, Siria e Giordania, che fu vinta da Israele, mentre, nell’ottobre 1973, una coalizione araba, formata soprattutto da Egitto e Siria, attaccò Israele nella guerra dello Yom Kippur, che si concluse con un cessate il fuoco imposto dall’Onu. Nel 1987, nel campo profughi di Jabaliya, ebbe inizio invece la prima intifada (rivolta) dei palestinesi contro il dominio israeliano, che si estese poi a Gaza, alla Cisgiordania e a Gerusalemme est, e terminò con gli accordi di Oslo, ratificati il 13 settembre 1993 tra l’allora premier israeliano Yitzah Rabin e l’allora presidente dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) Yasser Arafat. Questi accordi hanno portato all’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, che controlla la Striscia di Gaza e parte della Cisgiordania, e al riconoscimento dell’Olp come partner di Israele nei negoziati, che sono poi sfociati, nel 1995, negli accordi di Oslo 2, che estendevano l’autogoverno dell’Anp ad altre parti della Cisgiordania. Questi negoziati, però, pur avendo suscitato, inizialmente, grandi speranze, lasciavano irrisolte diverse questioni.
Il 28 settembre 2000 scoppiò invece, prima a Gerusalemme, e poi in tutta la Palestina, la seconda intifada (rivolta), dopo la visita, considerata dai palestinesi provocatoria, dell’allora capo del Likud Ariel Sharon al Monte del Tempio, luogo sacro per i musulmani. Ad agosto 2005, però, lo stesso Sharon, divenuto primo ministro, applica il piano di disimpegno unilaterale israeliano, con il quale vengono rimossi gli abitanti israeliani dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti in Cisgiordania settentrionale. È estremamente difficile, dopo tutti questi anni di rapporti assai tesi e di spargimento di sangue, stabilire se una delle due parti- gli israeliani e i palestinesi- possa accampare maggiori ragioni sull’altra riguardo alla propria permanenza in quella regione, che storicamente è stata abitata da entrambi i popoli, per cui, ad ora, è innanzitutto indispensabile che si arrivi, come minimo, ad un cessate il fuoco di alcune settimane e su tutti i fronti, unitamente alla liberazione degli ostaggi ancora prigionieri di Hamas, e che nella Striscia di Gaza venga consentito l’accesso a tutte le organizzazioni portatrici di aiuti umanitari, in modo da riportarvi condizioni di vita accettabili per la popolazione civile.
Occorrerà, poi, lavorare sul piano diplomatico e politico affinché da un cessate il fuoco si possa arrivare ad una tregua sempre più duratura e, quindi, gradualmente, alla pace in Medio Oriente, anche se per arrivare a ciò occorrerà compiere alcuni passi essenziali e significativi, come il riconoscimento a livello internazionale dello Stato di Palestina, già fatto da 146 dei 193 stati membri dell’Onu, ma non dall’Italia, né da Usa, Canada e la maggior parte dell’Europa Occidentale. Sarebbe, inoltre, auspicabile, proprio allo scopo di ottenere una pace duratura, un cambio della leadership tanto della parte israeliana quanto di quella palestinese, quindi un nuovo governo per Israele, che non sia responsabile nell’uccisione di decine di migliaia di palestinesi, e un’organizzazione che rivendichi le istanze di questi ultimi senza pero’ compiere atti di terrorismo e auspicare la distruzione di Israele, come invece fa Hamas.
Netanyahu, inoltre, è sotto processo in Israele per frode, violazione della fiducia e corruzione, per cui la guerra potrebbe, in parte, servirgli anche per distogliere l’opinione pubblica dai suoi problemi giudiziari, e difatti pare che, nei sondaggi, il suo consenso sia aumentato. È indispensabile, poi, che si smetta di vendere armi ad Israele, e che, qualora questo stato non voglia retrocedere dai suoi proposito bellicisti, che lo si induca a farlo ritirando, magari, gli ambasciatori e imponendo sanzioni economiche nei suoi confronti. Soprattutto, sara’ necessario che questi due popoli, israeliani e palestinesi, imparino a smettere di odiarsi a cercare, invece, di convivere pacificamente in un territorio in cui hanno vissuto entrambi, anche se cio’, dal 7 ottobre 2023, sembra sempre piu’ difficile.