Approfondimenti

Silvia Romano, se l’altruismo diventa una colpa

La giovane volontaria italiana rapita in Kenya è stata denigrata e insultata sul web in svariati modi: la sua scelta di dedicarsi alle popolazioni meno fortunate dovrebbe suscitare ammirazione, ma oggi il concetto di solidarietà appare ridimensionato e considerato roba da "buonisti".

Silvia Romano, se l’altruismo diventa una colpa 26 Novembre 2018Lascia un commento

Sono nato nel 1982 a Roma, e sono sempre vissuto, e vivo tuttora, nel quartiere Balduina, a cui sono molto affezionato e che considero uno dei migliori della città, ma di cui, al tempo stesso, conosco pure i difetti e gli aspetti che andrebbero migliorati.

Con l’avvento di Internet, molti sembrano sentirsi più liberi di esprimere, tramite i social network e la rete, i loro sentimenti negativi, la loro aggressività, la loro cattiveria, verrebbe da dire, soprattutto, magari, nei confronti di esponenti politici non di loro gradimento, ma anche, in generale, verso qualunque personaggio famoso, o persino verso chi, comunque, fa delle scelte di vita diverse dalle proprie. Pochi giorni fa, infatti, una ragazza italiana di 23 anni, Silvia Romano, è stata rapita a Chakama, villaggio sperduto del Kenya dove la giovane si trovava come volontaria della Onlus Africa Milele, che svolge progetti di sostegno all’infanzia, e, sui social, in moltissimi, invece di esprimere preoccupazione per la sua sorte, magari anche ammirando, comunque, la sua scelta di dedicarsi agli altri fino a spingersi in posti così lontani, l’hanno invece denigrata e insultata nelle maniere più disparate. Alcuni, ad esempio, l’hanno definita “l’ennesima Oca giuliva” sostenendo che “poteva stare a casa ad aiutare gli italiani, mentre altri si sono chiesti “quanto ci costerà farla tornare a casa sua per sempre ma con obbligo di dimora e firma”, altri ancora sperano “che tutti i buonisti pro clandestini facciano la stessa fine”, qualcuno, invece, ha commentato con un “Ma che brava. Una in meno in Italia”, e qualcun altro affermando: “Lasciatela lì, se è lì che è voluta andare.

Per fortuna, però, non sono mancati anche messaggi di sostegno alla ragazza, nonché critici verso quanti la denigravano: “Quindi quando uno dice “aiutiamoli a casa loro” lo dice solo così, per aprire bocca…” si affermava, ad esempio, in uno di questi. La parte forse prevalente dei commenti consisteva comunque in offese e insulti nei confronti di una giovane che, attualmente, si trova in pericolo per aver voluto aiutare quanti si trovano in condizioni di estrema miseria, come la popolazione di quel villaggio del Kenya, e verso la quale, invece, tutti noi dovremmo semmai esprimere ammirazione per tale scelta, senza stare a pensare agli eventuali costi economici che potrebbe richiedere la sua liberazione. Purtroppo, però, si direbbe che, al giorno d’oggi, lo stesso concetto di solidarietà, di aiutare chi ne ha bisogno in maniera disinteressata, sia stato fortemente ridimensionato, soprattutto se si va ad aiutare chi non è italiano, “trasgredendo” quindi lo slogan “prima gli italiani” che molti vanno spesso ripetendo (senza però fare nulla neanche per gli italiani in difficoltà).

Lo si è visto, in particolare, da un anno e mezzo a questa parte, da quando, cioè, è iniziata a livello sia politico che mediatico una forte campagna di delegittimazione delle Organizzazioni non governative (Ong), in particolare di quelle che si occupavano di salvare i migranti nel Mediterraneo, accusate di essere, in sostanza, “complici degli scafisti”, bollate con l’espressione “taxi del mare” dall’attuale vicepremier Luigi Di Maio e divenute oggetto di alcune inchieste giudiziarie che però, finora, non hanno riscontrato alcunché. Tale campagna di fango ha finito, inevitabilmente, per screditare anche le organizzazioni non direttamente coinvolte nel salvataggio dei migranti, perché, in qualche modo, è passato il messaggio che tali associazioni agiscano in maniera non del tutto lecita, o comunque non siano completamente senza scopo di lucro, pertanto, ormai, sono in molti a non credere più a nessuna di esse, e, di conseguenza, a ritenere “marcio” tutto il settore del “no-profit”, facendo mancare ad esso qualsiasi supporto, economico o di tempo, perché si è arrivati a pensare che, in definitiva, nessuno agisce senza un proprio tornaconto personale, in un trionfo dell’egoismo.

Certamente, anche in tali organizzazioni, oltre ai volontari, vi è del personale stipendiato, ma ciò proprio perché, per ottenere determinati risultati, devono poter contare anche sulla professionalità e la disponibilità di chi vi si dedica per lavoro. Quanti ancora sostengono determinate cause vengono, invece, spesso etichettati come degli ingenui o dei “buonisti” (neologismo divenuto ormai di moda), o come degli ipocriti, che magari fingono di portare avanti tali istanze per ottenerne, in realtà dei vantaggi, o persino dei criminali, che violerebbero le leggi. E’ singolare, poi, che molti fra quelli che hanno attaccato o insultato la giovane cooperante italiana siano proprio quelli che, generalmente, dicono che gli immigrati andrebbero “aiutati a casa loro”, che era proprio ciò che questa ragazza stava facendo, ma, evidentemente, quanti continuano a ripetere tale slogan, in realtà, sono assai poco intenzionati ad aiutare davvero le popolazioni più svantaggiate.

Hanno fatto molto discutere sul web anche le parole del noto giornalista Massimo Gramellini, che nel suo “caffé”, la rubrica quotidiana che tiene sul Corriere della Sera, ha scritto, in un pezzo intitolato Cappuccetto rosso”:  “Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto”. Gramellini ha però poi precisato di non accettare “gli attacchi feroci verso la giovane e di non “comprendere che tanta gente possa essersi così indurita da aver dimenticato i propri vent’anni”, sostenendo che l’unica colpa della ragazza “è di essere entusiasta e sognatrice”, e quanti la stanno offendendo non stanno insultando lei, ma “il fantasma della propria giovinezza”.

Il giornalista è stato sommerso dalle critiche di quanti si sono schierati in difesa della ragazza, che hanno definito il suo articolo “indegno“, accusando Gramellini di aver scritto parole orrende” e di essere ormai “allineato al populismo qualunquista”, e arrivando, in qualche caso, persino a minacciarlo di morte. Egli, in un altro articolo, è tornato sulla vicenda, scagliandosi contro i “centinaia di gabbiani da tastiera” che “hanno trovato il tempo per insultarmi e minacciarmi, ma non per leggere il Caffé fino in fondo”, e, quindi, non si sono nemmeno accorti “che tu su Silvia la pensi come loro”. Nella presa di posizione del giornalista si può comunque rintracciare un certo paternalismo, nel considerare la giovane, in sostanza, come un’ingenua, proprio a causa della sua età, ed anche un velo di cinismo, se le motivazioni spesso nobili che portano molte persone a spingersi in Paesi più poveri per aiutare le popolazioni locali vengono bollate come “smanie d’altruismo”, per quanto è comunque necessario che tali scelte vengano sempre ben ponderate prima e che ci si muova con organizzazioni e strutture fidate, facendo il possibile per ridurre eventuali rischi.

Sono nato nel 1982 a Roma, e sono sempre vissuto, e vivo tuttora, nel quartiere Balduina, a cui sono molto affezionato e che considero uno dei migliori della città, ma di cui, al tempo stesso, conosco pure i difetti e gli aspetti che andrebbero migliorati.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *