Si fa sempre più drammatica la situazione in Siria. Venerdì scorso, infatti, le truppe governative hanno sferrato un attacco contro la città di Douma, ultima roccaforte dei ribelli a dieci chilometri da Damasco, in cui sarebbero state impiegate armi chimiche, che avrebbero causato almeno settanta vittime, forse cento, in buona parte donne e bambini, e centinaia di feriti. Nella città erano presenti gli ultimi ribelli contro il presidente Bashar al-Assad, che avevano chiesto una tregua per lasciarla con le loro famiglie, ma l’ala dura Jaish al-Islam non era disposta a fare ciò, e questo avrebbe provocato la reazione del governo di Damasco. Dopo l’attacco chimico, i ribelli hanno però chiesto al governo di riprendere i negoziati, e alla fine il regime avrebbe acconsentito al rilascio dei prigionieri a condizione che tutti i miliziani di Jaish al-Islam lascino Douma. Intanto l’uso di armi chimiche contro la popolazione civile ha suscitato sdegno e reazioni in tutto il mondo: se, da una parte, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e altri cinque membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu hanno chiesto una riunione d’emergenza dello stesso, dall’altra il presidente americano Donald Trump, in un tweet, ha denunciato “l’insensato attacco chimico”, accusando anche: “La Russia e l’Iran sono responsabili per il sostegno all’Animale Assad. Ci sarà un alto prezzo da pagare“.
Nella mattinata di lunedì c’è stato invece un raid contro una base governativa siriana vicino ad Homs, che avrebbe causato quattordici vittime, principalmente miliziani siriani, ma che non si sa da chi sia stato sferrato, visto che il Pentagono ha negato ogni coinvolgimento. Damasco ne ha addossato la colpa prima agli Stati Uniti, poi ad Israele, e anche per Mosca si tratterebbe di F-15 provenienti da Israele. Intanto, Trump ha annunciato “importanti decisioni nelle prossime 24-48 ore“ dopo le “atrocità intollerabili” avvenute a Douma: si starebbe forse pensando ad un raid simile a quello di un anno fa, quando gli Stati Uniti colpirono l’aeroporto di Shayrat con 59 missili Tomohwak. Il presidente americano, domenica sera, ha inoltre parlato al telefono con il presidente francese Emanuel Macron, e la Casa Bianca ha poi fatto sapere che “i due leader hanno concordato di coordinare una forte, comune risposta”. Potrebbe quindi presto formarsi una mini-coalizione pronta a punire il regime di Assad, di cui potrebbero far parte, oltre a Stati Uniti e Francia, anche Gran Bretagna e Israele.
Durissima la risposta della Russia, il cui ambasciatore Vassily Nebenzia, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha dapprima sostenuto che “non ci sono prove di attacchi chimici“, per poi accusare Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna: “Avete avviato una campagna di aggressione contro la Russia e contro la Siria, un Paese sovrano. State usando toni offensivi che vanno ben oltre quelli della Guerra Fredda. Non vi rendete conto fino a che livello di rischio state spingendo la situazione internazionale“. Un cacciatorpediniere della Marina militare statunitense starebbe inoltre navigando nel Mediterraneo orientale verso la costa della Siria, e sarebbe giunto a un centinaio di chilometri dal porto siriano di Tartus, dove vi è una base della marina militare russa, e alcuni jet lo avrebbero sorvolato a bassa quota per quattro volte.
Lo scenario, quindi, se appare già assai drammatico per le molte vittime civili di questo attacco, che vanno a sommarsi alle quasi cinquecentomila causate da sei anni di guerra civile in Siria, rischia ora di incamminarsi verso una pericolosa escalation, data la molteplicità degli attori coinvolti, direttamente o indirettamente, fra cui vi sono le due principali potenze mondiali, Stati Uniti e Russia, che sembra vogliano quasi sfidarsi per puntare al controllo dell’area, un pò come ai tempi della Guerra Fredda, quando si contendevano il controllo di varie macroregioni, e a farne le spese, allora e adesso, è sempre la popolazione civile. La situazione siriana è, del resto, estremamente complicata, poiché, se da una parte lì abbiamo un dittatore sanguinario come Bashar Al-Assad, appartenente alla comunità religiosa alawita, dall’altro abbiamo il fronte dei ribelli, prevalentemente di religione sunnita e nel quale vi sono diverse componenti fondamentaliste, compreso l’Isis, che però era venuto in conflitto con gli altri gruppi ribelli e ora, dopo le offensive lanciate dall’esercito siriano la scorsa estate, sarebbe quasi sconfitto. Vi è poi la minoranza curda, che, se inizialmente vedeva il governo come un nemico e i ribelli come possibili alleati, era comunque diffidente verso le componenti estremiste di questi ultimi, e si è rivelata poi fondamentale nella lotta all’Isis.
Sembrerebbe quindi molto difficile schierarsi per l’una o per l’altra parte, non essendo chiaro quali siano i “buoni” e quali i “cattivi”, e un’azione militare, soprattutto se di vasta portata, andrebbe scongiurata, sia perché essa causerebbe altre vittime, sia perché, come dimostrano le guerre in Afghanistan e in Iraq, quando le potenze occidentali, mosse principalmente dai loro interessi, intervengono nelle regioni medio-orientali, dove spesso, vi è una pluralità di gruppi e di attori coinvolti, finiscono per peggiorare la situazione o per lasciare tali nazioni in balia del terrorismo o della guerra civile. E’ comunque importante tentare di giungere ad una mediazione fra il regime di Assad e i gruppi ribelli, in modo che il primo cessi i bombardamenti sulla sua stessa popolazione e i secondi cessino le ostilità, e la comunità internazionale, che finora non sembra essersi particolarmente interessata alla questione siriana, dovrebbe invece adoperare ogni sforzo a tal fine, cercando però al contempo di evitare lo strumento militare, che andrebbe sempre considerato come un'”extrema ratio”, a cui ricorrere solo dopo aver tentato tutti i canali diplomatici e politici.