E’ una sentenza storica quella pronunciata venerdì scorso dalla Corte di Assise di Palermo, nell’ambito dell’inchiesta sulla “trattativa Stato-mafia“. Gli ex generali dei Ros Mario Mori e Antonio Subranni sono stati infatti condannati a dodici anni di reclusione, così come l’ex senatore e co-fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, mentre all’ex colonnello Giuseppe De Donno è stata comminata una pena di otto anni, e al boss Leoluca Bagarella di ventotto. L’ex ministro Nicola Mancino è stato assolto perché il fatto non sussiste, mentre il “supertestimone” Massimo Ciancimino è stato condannato a otto anni per calunnia verso l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, ma assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Per il pentito Giovanni Brusca è invece scattata la prescrizione. Mancino era accusato di falsa testimonianza, mentre per gli altri il reato contestato era quello di violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato. Tra il 1992 e il 1993, insomma, mentre Cosa Nostra insanguinava l’Italia a suon di bombe, prima con le stragi di Capaci e via D’Amelio e poi con gli attentati a Roma, Firenze e Milano, uomini delle istituzioni cercavano contatti con i vertici mafiosi, inizialmente per far cessare le stragi, ma finendo poi con il veicolare le richieste e i ricatti mafiosi, riguardanti soprattutto l’attenuazione del regime di carcere duro previsto dal “41 bis”.
Secondo l’accusa, inoltre, la mafia avrebbe deciso di uccidere il giudice Paolo Borsellino proprio perché egli avrebbe potuto costituire un ostacolo a tale trattativa, della cui esistenza egli stesso, secondo quanto raccontato dalla vedova Agnese, sarebbe venuto a conoscenza. Si tratta forse di una delle pagine più torbide della storia d’Italia, visto che vedrebbe lo Stato arrivare a piegarsi, almeno in parte, alle richieste della mafia, o addirittura venire a patti con essa, tuttavia questa sentenza, di cui, comunque, ancora non si conoscono le motivazioni e che, è bene ricordarlo, è solo una sentenza di primo grado, aiuta un po’ a fare luce su quegli avvenimenti, che sembrano lontani, essendo trascorsi 25 anni, ma che comunque, in parte ancora ci riguardano. Non è ancora ben chiaro, infatti, se vi possano essere stati dei mandanti a livello politico di tale trattativa e, in tal caso, chi siano, tuttavia, fra i condannati in questo processo, c’è il cofondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, fedelissimo di Berlusconi, già in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, che, secondo il sostituto procuratore Nino Di Matteo, titolare dell’inchiesta assieme ai pubblici ministeri Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, avrebbe “fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa Nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato. E il rapporto non si ferma al Berlusconi imprenditore ma arriva al Berlusconi politico“.
Nella sentenza, infatti, vengono dichiarati colpevoli gli ufficiali dei Ros “limitatamente alle condotte contestate come commesse sino al 1993“, e l’ex senatore “limitatamente alle condotte contestate come commesse nei confronti del Governo presieduto da Silvio Berlusconi”. Per l’accusa, la trattativa si sarebbe svolta in due fasi: nel 1992 “i carabinieri dei Ros avevano avviato una prima trattativa con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un “papello” con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi”, mentre, dopo l’arresto di Riina del 15 gennaio 1993, i boss mafiosi avrebbero tentato un’altra trattativa, avendo stavolta come referenti Bernardo Provenzano e lo stesso Dell’Utri, che, nel 1994, “riuscì poi a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative che se approvate avrebbero potuto favorire l’organizzazione”. Viene quindi chiamato in causa, pur non essendo indagato per questi fatti, anche l’attuale leader di Forza Italia ed ex presidente del Consiglio, che era stato tirato in ballo, alcuni mesi fa, pure dal boss Giuseppe Graviano, che, intercettato in carcere mentre parlava con un co-detenuto, avrebbe affermato: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia… per questo c’è stata l’urgenza. Lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa“.
Dopo queste parole, la procura di Firenze ha persino riaperto, dopo due archiviazioni, un fascicolo d’indagine che vede Berlusconi e Dell’Utri accusati di essere i “mandanti occulti” delle stragi mafiose del 1993, a proposito delle quali, del resto, lo stesso Graviano, in carcere, aveva dichiarato: “Nel ’93 ci sono state altre stragi, ma no che era la mafia. Loro dicono che era la mafia“. Si tratta di accuse ancora tutte da dimostrate, ma che, se confermate, sarebbero gravissime per un uomo che, nonostante abbia già una condanna con sentenza definitiva (per frode fiscale), riveste ancora un ruolo importante, se non di primo piano, nella scena politica. E’ del resto risaputo che l’ex Cavaliere, negli anni Settanta, ospitò presso la sua villa di Arcore il boss mafioso Vittorio Mangano, ufficialmente come “stalliere”, ma che in realtà era a “protezione” di Berlusconi e dei suoi familiari da possibili sequestri di persona, che la criminalità organizzata milanese, allora, spesso eseguiva a scopo di estorsione.
Ancora prima, le stesse origini dell’attività imprenditoriale di Berlusconi destano diversi sospetti, perché egli, nel 1961, avrebbe ottenuto una fideiussione dalla Banca Rasini, una piccola banca milanese in cui il padre Luigi lavorava come funzionario, e che però era la principale banca adoperata dalla mafia nel Nord Italia per il riciclaggio di denaro sporco, mentre, negli anni Settanta, la sua Fininvest ricevette dei finanziamenti da conti svizzeri. Si spera, dunque, che si voglia ancora fare chiarezza su determinati fatti, per quanto essi possano risultare lontani nel tempo e per quanto la verità potrebbe sembrare sconvolgente, e che si ricerchi tale verità anche a livello processuale, senza isolare i magistrati che fanno ciò, come in parte è avvenuto, dato che, oltre ad esponenti delle istituzioni di quegli anni, potrebbero essere coinvolti, direttamente o indirettamente, anche uomini politici ancora di rilievo. Per il sostituto procuratore Di Matteo, infatti, la sentenza di venerdì scorso “rappresenta un accertamento giudiziario che può essere anche un punto di partenza per ulteriori indagini sulle stragi che probabilmente non furono opera solo di uomini di Cosa Nostra”, ma, per proseguire tali indagini, “ci vorrebbe un pentito di Stato, uno delle istituzioni che faccia chiarezza”.